Libri – “Eravamo dei grandissimi” di Clemens Meyer

“E quando sogno di quell’anno, o ci ripenso, capisco che noi, allora, eravamo dei grandissimi”.

È una battuta di Daniel, uno dei protagonisti di Eravamo dei grandissimi di Clemens Meyer, romanzo che scava nel cuore della “generazione del 1989”.

Articolo di Giovanni Giusti

Meyer ha gli occhi bassi sotto i riflettori dell’auditorium del Goethe-Institut, sono puntati sul suo libro anche quando è chiuso, un volume diciamo abbastanza preoccupante a vederlo da lontano, che saranno almeno seicento pagine. Poi lo apre e comincia a leggere, con voce cupa, un po’ trascinata, e un tono da narratore vero, una di quelle voci che vorresti che non smettessero mai di raccontare. E che fa sparire subito la preoccupazione. “Ho cominciato a lavorarci nel 1999, fino al 2006” dice dopo alcune pagine Meyer “e in tutti questi anni Eravamo dei grandissimi è rimasto un romanzo ancora vivo e vegeto. Non so perché, forse perché la sua storia è, per così dire, una vecchia storia, quella di una gioventù che cresce, tra amore amicizia e tradimento, e che ha sullo sfondo un grande avvenimento come la caduta del Muro. Non per niente uno dei miei grandi modelli è il film C’era una volta in America”.

E nel pieno del dissolvimento della Repubblica Democratica Tedesca è il giovane Daniel che parla in prima persona, che ci fa da narratore, dalla scuola elementare fino all’inizio dell’età adulta, nel periodo di grande cambiamento che va dal 1985 al 1995. Daniel è solo il portavoce di un romanzo corale che non ha un vero protagonista, e che tra abusi di alcol e droghe, esplosioni di delinquenza e entrate e uscite da riformatori e prigioni ci proietta nelle strade selvagge di Lipsia Est. “No, non è un’autobiografia” ci tiene a precisare Meyer, “ma semplicemente un romanzo con tratti autobiografici. Ho voluto raccontare l’essere e il declino di una di un gruppo di ragazzi che sento molto vicini a me, di miei coetanei che si sono scontrati duramente con la vita.”

La verità mutevole

Roberta Gado, insieme a Riccardo Cravero ha tradotto il romanzo, uscito in Italia insieme al film presentato all’ultima Berlinale. È lei a leggere il prologo, “dà già l’impronta del libro”, dice. “Il prologo è stata la prima cosa che ho scritto” aggiunge Meyer “e non pensavo che facesse già parte del cuore della storia, anche perché da subito ho organizzato il romanzo in modo non cronologico. Ho dato vita così a qualcosa che trasforma il flusso degli avvenimenti, qualcosa che ha a che vedere con il realismo magico. Con la conseguenza che anche i personaggi sono più liberi. La verità è mutevole, cambia secondo chi la racconta, lasciando fluire insieme tutte le narrazioni forse si arriva alla verità”.

I personaggi di Meyer sono sicuramente uno dei punti di forza del romanzo. Daniel che ci racconta la storia di tutto il gruppo con l’alcol, le sigarette e le risse a fare da sottofondo costante, e le ragazze sempre nei suoi pensieri, come Katja che fugge all’Ovest con la famiglia, che sparisce come tanti altri, senza neanche un addio, o Estrellita, il grande amore che dopo vari tradimenti ritroverà prostituta in un bordello. Rico il pugile, una specie di onnipotente e ribelle eroe omerico, Mark che morirà per droga, Pitbull e il suo cane. I genitori e gli adulti in genere, tutti più o meno alcolisti convinti. E gli altri, i nazi, le zecche, gli ultras della squadra di calcio della Chemie, o i bislacchi compagni di cella. Con Lipsia sempre al centro del racconto, il quartiere periferico di Reudniz e gli interminabili viaggi sul treno della S-Bahn. “È che non riuscivo a venire via dal quartiere, mi allontanavo solo per andare in tribunale o al carcere minorile o in galera” confessa Daniel a un certo punto. Lipsia, una delle città protagoniste delle manifestazioni pacifiche negli anni della svolta. “I protagonisti del libro nel 1989 avevano tredici anni” dice Meyer “e sono stati a guardare, alla svolta non hanno partecipato. Nel romanzo si limitano a dare uno sguardo ingenuo, non capiscono quello che vedono, non capiscono ancora quello che stanno vivendo. Sono ingenui perché partono dalla periferia, vanno a scoprire il mondo che c’è nel centro della città. Di Lipsia ho cercato di raccontare alcuni tratti architettonici che sono andati persi e mi sono preso anche delle libertà, ho inventato dei luoghi, come il cinema Palast Theatre dove si svolge un capitolo molto importante, con la sua insegna luminosa che perde la ‘l’ e che di fatto lo fa diventare il teatro del passato”.

Un torrente sotterraneo

“Sotto al libro c’è un torrente di emozioni che non vengono tirate fuori, ma che si avvertono chiaramente nella scrittura” dice Gado, “il grande valore letterario del romanzo è che quello che c’è scritto è solo una piccola parte del ‘non detto’. C’è molta violenza, ma nessuna morale”. Meyer solleva per un attimo lo sguardo dal suo libro, “bisogna stare attenti quando si scrive una storia come questa a non metterci troppo cuore. Non puoi lasciarti travolgere dall’emozione, devi rimanere freddo nei confronti dei personaggi, devi essere spietato, trasmettere verso di loro solo piccoli gesti e mantenere un linguaggio chiaro che possa trasmettere emozioni senza essere troppo esplicito. Nel mio libro la morale la deve scoprire il lettore, ma nella vita dei miei personaggi c’è comunque, sempre, oltre la violenza, una controparte di dolcezza. Loro cercano degli spazi per sfuggirla la violenza, vivono nel caos, ma quando sono tra di loro trovano la pace. E sono molto concreti. Bisogna considerare che nel 1989, prima venivano le cose concrete, poi il resto. E posso anche dare un ordine, prima il bere, poi il mangiare, e solo dopo, la morale.”

Quando sognavamo

Quando sognavamo è il titolo originale in tedesco. “Abbiamo cambiato il titolo” dice la traduttrice Roberta Gado, “perché in italiano Quando sognavamo suonava troppo sentimentale, mentre Eravamo dei grandissimi è una frase che si sente molte volte nel corso del romanzo e la parola sogno nel testo è spesso abbinata al concetto di grandezza. In fin dei conti essere dei grandissimi è proprio il sogno dei ragazzi del romanzo”.

Quando sognavamo vuol dire che quella generazione aveva grandi sogni” conclude Meyer, “come ogni generazione. Per le precedenti era il socialismo, per quella del romanzo poteva essere libertà. Che poi si è rivelata fatale. Ma i ragazzi del romanzo hanno anche piccoli sogni, come l’amore, l’amicizia, o semplicemente un colpo di fortuna al ‘gratta e vinci’. Sogni. Il mio romanzo è un miscuglio tra piccoli sogni e grandi sogni”.

 

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

* Questa casella GDPR è richiesta

*

Accetto

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.